Lo sguardo di Mario Raffaelli — leader di Azione in Trentino — è proiettato al 2023, alle elezioni provinciali che crede si possano vincere. Anche senza il Patt «che ormai ha già scelto di andare a destra», anche con il Pd azzoppato dalle discussioni interne, anche se un candidato non c'è ancora: «Come tavolo di coalizione ci siamo impegnati a trovare un nome entro febbraio, una promessa che sarebbe giusto mantenere. Siamo rispettosi del dibattito interno al Pd, ma sia chiaro che quando ci si diede al tavolo non è che si possa intonare il solito ritornello “prima il programma e poi il candidato presidente”. Un nome serve subito».
Sul tavolo ci sono quelli del sindaco di Rovereto Francesco Valduga, del presidente delle Acli Luca Oliver e della consigliera di Casa autonomia Paola Demagri. Matteo Migazzi si è fatto fuori da solo, ma sembra che per la corsa alla presidenza ci stia pensando anche Paolo Piccoli, mentre c'è chi pensa che il cavallo vincente sia solo il sindaco di Trento Franco Ianeselli.
Quale sceglie della rosa?
«Non sarebbe corretto se mi mettessi ora a fare nomi senza prima averli fatti al tavolo. Ma partiamo da questi, disponibili a valutare altri profili, anche se non mi sembra che in Trentino ci sia un grande vivaio».
Facciamo così allora: chi escluderebbe dalla rosa?
«Escluderei subito Ianeselli, perché non si può mandare il capoluogo al voto. Non può lasciare il lavoro a metà, e sono sicuro che non lo voglia nemmeno lui».
Anche il sindaco di Rovereto Valduga dovrebbe lasciare anzitempo il suo mandato.
«Lui è al suo secondo. Ma in generale, sulle candidature vanno verificati i pro e i contro, valutando bene le capacità e il portato di novità. E poi vanno scelte le persone sulla base di un'idea precisa di quello che si vuole fare»
Cioè?
«Servono idee nuove, innovative. Serve dunque una figura che sia interprete di novità e di rinnovamento. Non può passare il messaggio di una continuità con quello che c'era prima, perché un ciclo è finto».
Il nome del candidato presidente uscirà in ogni caso dalla sintesi che faranno i partiti della coalizione. Come sono i rapporti di forza?
«Il Pd, il partito più grande, avrebbe dovuto essere il perno, ma per le vicende interne ha ridimensionato il suo ruolo. Credo che sia ora un dovere delle altre forze farsi propositive, e il mio impegno è quello di rafforzare il rapporto tra il Terzo polo e Campo Base, per trovare assieme un approccio comune».
Ma c'è chi dice che si vince solo con il Patt. Secondo lei?
«No, non è per forza così. Il Patt la scelta di andare verso destra l'ha già fatta, e la prima conseguenza è stata la fuoriuscita di Michele Dallapiccola e di Paola Demagri, componente che dev'essere fin da subito valorizzata e che io stesso ho subito chiesto di aggiungere al tavolo della coalizione. Componente, aggiungo, che potrebbe intercettare i voti degli autonomisti che giustamente si sentirebbero traditi dall'abbraccio delle Stelle alpine con il nazionalismo di Fratelli d'Italia».
Dunque la partita è ancora aperta?
«Certo, ma solo se la nostra proposta non sarà la stanca riproposizione del centrosinistra. Lo ripeto, a partire dal candidato presidente ma anche dalla composizione delle liste servono novità e innovazione».
Verso i 5 Stelle immagino che Azione, come a livello nazionale, ponga il veto anche a livello locale. Ma un ragionamento con Onda dell'ex grillino Filippo Degasperi?
«L'importante è consolidare la coalizione. Poi vedremo quando ci sarà un nome, un programma».
Ecco, e a proposito di programma? Cosa proponete?
«C'è bisogno di una visione, e questa coalizione deve caratterizzarsi per questo. In questi anni stiamo affrontando quattro crisi globali senza precedenti: quella economica che si protrae dal 2008, quella pandemica, quella ambientale, e la crisi della sicurezza collegata alla guerra ucraina. Crisi che hanno di fatto provocato la rottura del compromesso tra mercato e democrazia, portando alla crescita delle disuguaglianze e per per la prima volta da decenni al blocco dell'ascensore sociale. I figli stanno peggio dei padri».
Fatta questa premessa, cosa può fare la politica?
«Molto. Creando nuovi patti basati sull'alleanza tra merito e bisogno, includendo chi è escluso senza la ricetta facile dell'assistenzialismo. Ma si può e si deve intervenire anche riattivando e rivivendo le istituzioni, con politiche che leghino i territori agli Stati e gli Stati all'Europa e al resto del mondo».
E declinata sul Tentino, che proposta emerge?
«Oggi se rimani separato, se non attivi reti e connessioni, sei perdente. Vale per le persone e vale per le istituzioni. E qui emerge il tema della Regione, che nel tempo si è via via indebolita. Per difendere l'autonomia non si deve difendere per forza lo status quo in maniera passiva. Servono invece, anche qui, innovazione, idee, proposte. Soprattutto dal Trentino, perché il Sudtirolo è molto più garantito di noi. Insomma, c'è una storia comune che però da sola non basta più a renderci “speciali”, è necessario che anche il futuro sia comune, e su questo serve un po' di fantasia».
Ogni riforma della Regione sembra cadere nel vuoto, per Bolzano andrebbe abolita. Cosa propone?
«Aboliamola. Ma dentro un ragionamento complessivo che rilanci l'alleanza con il Sudtirolo, creando uno strumento che rappresenti le due comunità autonome di Trento e Bolzano, che assolva a una funzione vera, quella dei rapporti cooperativi tra le due realtà e delle due realtà con il resto del mondo, con Roma, con Bruxelles».
In piccolo, una Commissione europea, dove al posto degli Stati ci sono invece le due Province. È così?
«In un certo senso sì. Le due Province concordano le politiche di questa entità che poi le rappresenta nelle relazioni, rilanciando la specialità e difendendo le prerogative di uno statuto di autonomia che rimarrebbe unico».
Il Trentino dovrà convincere l'Alto Adige. Sarà possibile?
«Sì, con la rielezione di Arno Kompatscher. No se rimane Maurizio Fugatti. Anche per questo dobbiamo vincere noi».
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