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I TALK SHOW E LA DERIVA CULTURALE DEL PAESE

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Mario Raffaelli interviene su il T Quotidiano con una riflessione puntuale sulla deriva culturale del nostro paese. Di seguito l'intervento!

In un editoriale molto bello e controcorrente (16 febbraio) Paolo Morando ha spiegato in maniera esemplare come e perché il dilagare incontenibile dei talk show sia un fenomeno solo italiano e quali siano gli effetti perversi che ne possono derivare. Personalmente sono ancor più radicale e credo che questa deriva sia componente non marginale della degenerazione della cultura e del confronto politico nel nostro paese.




Una deriva che, appunto, ha trasformato l'informazione televisiva in «infotainment» o, più prosaicamente, in un circo Barnum dove, accanto a persone serie, abbondano illusionisti, imbonitori, fenomeni da baraccone e qualche clown. Probabilmente questa insufficiente comprensione del rapporto fra televisione e processo democratico è riconducibile al fatto che, dopo l'ingresso in politica di Berlusconi, il tema principale è stato quello della proprietà dei mezzi di comunicazione e del conseguente conflitto d'interesse. Trascurando così il fatto che, nel mondo televisivo, sono molteplici i soggetti che detengono di fatto un rilevante potere d'influenza. Eppure, già nel lontano 1993 Giovanni Sartori aveva sollevato da par suo il tema del «video potere» sottolineando, in «Democrazia» e in libri successivi, come stessimo uscendo da un mondo costituito da cose «lette» per entrare nel mondo delle cose «viste». Prima della televisione, infatti, l'uomo moderno non ha mai «visto» gli avvenimenti del mondo che apprendeva invece solo dalla lettura di libri e giornali o, in epoca più recente, con l'ascolto della radio. In un caso e nell'altro, quindi, era costretto a spiegarsi il mondo «pensandolo». Mentre, ad un tratto, con la televisione ha cominciato a «vederlo». All'inizio, riconosceva Sartori, l'impatto del «televedere» è stato positivo e anche «risvegliante», in particolare in quelle aree del mondo dove l'informazione era scarsa o negata (un po' come è successo poi con Internet). Ma purtroppo, nel tempo, non si è prodotto un arricchimento dell'Homo sapiens da parte dell'Homo «videns», bensì la semplice sostituzione dell'uno con l'altro e la nascita, quindi, di un uomo che sa solo quello che vede, che «vede senza sapere». La televisione, infatti, «traduce i problemi in immagini, ma se poi le immagini non sono ritradotte in problemi, l'occhio mangia la mente», perché «tutto va fuori proporzione e nemmeno si capisce più quali problemi siano fasulli e quali veri». La televisione, inoltre, ha capovolto nel nostro paese le forme tradizionali dell'attività politica. Una volta gli avvenimenti venivano creati dai partiti nella società. Attorno ad un determinato tema si sviluppava l'azione degli attori politici che, utilizzando gli strumenti tradizionali, cercavano di mobilitare l'attenzione dell'opinione pubblica. E quando tale attenzione raggiungeva un «peso» sufficiente, allora si creava l'evento che guadagnava le pagine dei giornali diventando così «fatto politico». Nell'epoca attuale qualche volta accade ancora così ma, molto più spesso, l'evento viene creato (spesso artificiosamente) nel salotto televisivo e da lì si trasmette direttamente all'opinione pubblica influenzandola. Le tappe iniziali di questo processo sono state l'introduzione della cosiddetta «televisione verità» e l'utilizzo della «piazza» virtuale. Purtroppo, infatti, mentre la «piazza reale» dovrebbe essere luogo del dialogo, della composizione dei conflitti e, quindi, della decisione, la «piazza televisiva» presenta inevitabilmente una parzialità per il tutto, tende a dare voce soltanto a chi protesta, riducendosi spesso ad una pura scenografia, uno spettacolo il cui copione è stato scritto precedentemente altrove. Non a caso, in maniera profetica, Sergio Romano scriveva nel 1993 («L'Italia scappata di mano»): «si sviluppa un tipo di giornalismo che non si accontenta più dei fatti esistenti e delle opinioni che essi suggeriscono» ma che tenta invece di alimentarsi creando i propri fatti, o ingigantendoli per cui «il conduttore o reporter diventa impresario teatrale, inventore di effetti speciali».

Da allora, le cose sono andate di male in peggio. I conduttori imprenditori, oltre ad invitare alle loro trasmissioni gli «ospiti» di professione (a gettone) appartenenti alle diverse scuderie amiche, si sono specializzati nello scoprire personaggi improbabili o stravaganti, inventandoli come «esperti» e facilitando così a volte perfino un loro successivo ingresso in Parlamento. Il tutto evitando accuratamente l'approfondimento informato dei temi a vantaggio dello scontro confuso, aggressivo e teatralizzante. Invertire questo stato di cose è compito che appartiene agli operatori del settore. Come utente, per il momento, mi accontenterei di un primo passo. Mino Martinazzoli aveva definito uno dei primi talk show dell'epoca una «fumeria d'oppio». Forse sarebbe bene che le televisioni applicassero almeno la misura della «modica quantità».

* Ex parlamentare e componente della segreteria nazionale di Azione

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